Frammenti lirico – cromatici di un mondo in frantumi

Giuseppe Mannino

Ci sono segnali, invero ancora deboli, che denotano un radicale cambiamento nell’arte.
Un periodo buio, pieno di incertezze e di confusione, che dura da quasi mezzo secolo, sembra destinato a concludersi.
E’ questa la prima riflessione che mi suggerisce l’opera di Alessandro di Cola. Infatti, è sorprendente che un giovane, il cui percorso formativo avrebbe potuto portarlo sulla comoda e illusoria strada delle installazioni, magari con l’innesto della parola poetica, abbia preferito intraprendere una ricerca creativa, che ha solide basi di laboratorio (e in seguito vedremo di quale antico e collaudato laboratorio si tratta).
Ma per rendere più comprensibile la considerazione iniziale, non si può non aggiungere che per buona parte della seconda metà del secolo scorso e per il primo decennio del presente l’arte è apparsa scollegata dalla società e dall’etica, dimostrando di non avere un progetto per il futuro. Tutto sembrava costruito e ideato con il solo obbiettivo di sorprendere, con effetti speciali, fino all’esaurimento della materia prima.
Eppure il secolo scorso era iniziato con alcuni movimenti, che hanno inciso nella storia dell’arte, cambiandone il corso, preludendo all’astrattismo e al surrealismo. Penso al Gruppo Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro), fondato da Kandinskij insieme a Marc e Macke in Germania, proprio un secolo fa. Era il preludio del rinnovamento dell’arte e tra i primi a comprenderlo fu Klee seguito da tanti altri, tra cui Delaunay con il suo Cubismo Orfico, cioè con la sua visione mistico – onirica, che rispetto all’originario cubismo, incentrava la ricerca sul colore, sulla luce, sull’armonia e sul ritmo. Orfeo, in tal senso, veniva considerato come il mitico musico-poeta dotato di magici poteri. Delaunay, peraltro, aveva condiviso un breve percorso con Marc e Macke, ricordato in una interessante mostra tenuta allo Sprengel Museum di Hannover nel 2009, dal titolo significativo “La bellezza di un mondo in frantumi (1910 – 1914)”.
Ebbene il mondo dell’arte da diversi decenni è tornato ad essere in frantumi: la mancanza di luoghi dove gli artisti avessero l’opportunità di incontrarsi e confrontarsi ha reso difficoltosa la circolazione delle idee e nel contempo è venuta meno quella vitale risorsa del 2% del costo delle opere pubbliche, da destinarsi all’arte. Di questo mondo in frantumi Alessandro di Cola è al tempo stesso interprete e protagonista.
Ho conosciuto Alessandro di Cola alla Fonderia Anselmi, storica fucina artistica romana che da Piazzale Clodio da alcuni decenni si è trasferita nella periferia, a Casal Monastero, nelle adiacenze della Via Tiburtina.
La Fonderia Artistica Anselmi è forse l’unico laboratorio, se non l’unico certo il più importante, frequentato da autorevoli artisti, tra cui appunto Alessandro di Cola, che nonostante la giovane età è considerato un maestro.
Insomma un luogo dove gli artisti si incontrano e si confrontano, scambiandosi consigli e ragionamenti, senza invidia e senza segreti.
Venute meno le gallerie sorte subito dopo il secondo dopo guerra, che hanno formato vere e proprie scuderie di artisti; scomparsi i critici, che seguivano non solo le mostre ma anche l’attività dei singoli artisti; eliminati gli spazi dedicati alla critica d’arte e tolta la terza pagina dai giornali, è venuta a mancare anche la figura del mercante. Per converso, quei pochi critici “sopravvissuti” sono diventati promotori e sponsor d’arte.
In questo quadro un laboratorio, dove si intravede un progetto per un futuro dell’arte, che sappia fare attenzione all’etica e al sentimento, appare un fatto di grande rilevanza e un artista come Alessandro di Cola, con la sua capacità di essere sensibile ad un ruolo dell’arte che sappia fornire messaggi etici e sociali, ne accresce la valenza culturale e progettuale.
E’ in questo Laboratorio che Alessandro di Cola ha collezionato una notevole quantità di opere che ora entrano a pieno titolo in una monografia, che dà un quadro sufficientemente ampio e convincente di una personalità artistica destinata a crescere.
Interessante è il connubio tra pitto-scultura e pensiero poetico, che dà il senso di una particolare sensibilità ad una molteplice capacità di usare forme diverse di linguaggio: materia, colore, parola convivono in un racconto di un mondo in frantumi fatto di frammenti lirico – cromatici (si vedano le opere: Journey, Il Clown, Lei).
Ma anche quando non c’è il supporto della parola e del colore, l’ambientazione dell’opera racchiude un racconto, che ciascuno può cogliere dal complesso della scenografia, come nell’opera “Storie di famiglia” dove sul tavolo sono collocate delle braccia in corrispondenza di sedie, che lasciano immaginare la presenza – assenza di esseri umani legati da affetti e sentimenti, che rievocano momenti di vita in comune, ormai solo un ricordo per coloro che sono venuti dopo o che ancora devono venire: una sorta di messaggio a futura memoria con elementi ancora presenti e vitali.
La cosa che trovo sorprendente nel complesso dell’opera di Alessandro di Cola è la sua capacità di far parlare le mani, più che il volto o gli altri organi corporei quasi sempre rappresentati in frammenti: quelle che sembrano maschere sono in realtà frammenti di volto.
Frammenti, appunto; ma come un secolo fa, rappresentano la bellezza di un mondo in frantumi, che ciascuno può ricomporre a proprio piacimento.
E questa è vera arte.

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