Drama e opere di Alessandro Di Cola

Claudio Crescentini

Come nei frames di un brit-movie di qualche decennio fa le opere di Alessandro Di Cola sembrano visualizzare il tormento (l’estasi?) di un percorso mentale e creativo che rasenta il drama naturale, sempre per rimanere nel gergo cinematografico, e che, a nostro avviso, già nella riscontrabile autonomia stilistica dell’artista, finisce per indagare le esigenze più profonde della eidetica, della ricerca dell’essenza dell’uomo.
Di Cola, infatti, tramite la continua sperimentazione materica (bronzo, cera, alluminio, legno, resina, ecc.) sembra voler riflettere, al di la delle forme, direttamente sull’uomo, quindi sulla cultura e perciò sull’arte, sulla storia dell’arte, partendo dalle riscontrabili radici post-surrealiste e new-dada, fino a sfiorare le problematiche compositive dell’arte concettuale della seconda metà del XX secolo e l’ondata new-sculpture di questo stesso periodo. Da Mona Hatoum a David Smith.
Si veda a tale proposito il caso di Journey, dove Alessandro Di Cola mette in scena il drama appunto, con spirali e avvolgimenti “strazianti” che emergono dall’interno della stessa valigetta utilizzata, la quale, a sua volta, diventa cardine e limite della scena stessa.
In questo modo, così come in altre opere di Di Cola, le vibrazioni materiche finiscono per dare origine, come già si era espressa Fabrizia Ranelletti, a “sofferte drammaturgie” visive, dove è possibile recuperare ed avvalorare una nuova “morale artistica” e i valori in essa contenuti. Di rimando l’artista, sempre in riferimento a Journey, scrive: “Acqua come sangue che irrora il mondo e ne preserva la vita. Mari come giacimenti di distribuzione, contenitori di storie e segreti. Nel suo viaggio si rigenera lavando i suoi stessi panni che ne portano le "macchie", gli "odori", i colori. un viaggio che ha segnato un inizio a noi tutti noto”.
In una parola Di Cola sembra volersi spingere con la sua arte verso le cosiddette “espressioni dello spirito”, o per meglio dire le “condizioni d’esistenza” dell’uomo, supporti tecnici ed intellettuali che finiscono per divenire imprescindibili per l’artista. In tal modo si vengono a compensare anche quelle carenze istintuali in parte ancora presenti in alcune sue opere. Pensiamo ad esempio alla serie dedicata ai Clowns che non garantisce fino in fondo il raggiungimento dell’armonia tra corpo e natura che ciascun singolo artista sperimenta in ogni suo atto di vita e di arte.
Ma al di la di questo Di Cola rimane un grande curioso visuale, come nelle sue opere (pitto)fotografiche, con sempre in primo piano una grande predilezione per il lavoro manuale dell’arte. E qui si riscontra in maniera determinate l’insegnamento della lavorazione della materia impartitogli da Bruno Liberatore, suo maestro d’Accademia, e sul piano de-scrittivo e scultoreo, da Giuseppe Mannino.
Di Cola però è anche, se non soprattutto, un puro istinto creativo, con un occhio, come già sostenuto, alla materia dell’arte e l’altro verso l’esterno dell’arte, per intenderci la natura che, come lo stesso artista afferma, è da interpretare “come linguaggio universale di forme e generatrice di idee”.
Queste in definitiva le doti espresse dal giovane artista nelle sue creazioni, vissute prima di tutto, torniamo a ripeterlo, come drama personale, di vita vissuta, soggettivo ma che indissolubilmente tende a divenire oggettivo, quindi di tutti, aspirando all’universale.
Del resto si respira un’ansia continua nelle sue opere – particolare rilevabile in molte opere di giovani artisti del nostro contemporaneo – e che in definitiva pervade tutta la sua ricerca artistica ed intellettuale, in maniera da coincidere proprio con la precisione del riscontro figurale delle sue creazioni.
In tal modo proprio il suo pensiero sulle forme dell’arte finisce per divenire il fine della sua stessa arte che non va però confuso con la fine, eterodossia del tempo ciclico, ma con il raggiungimento della méta per il tramite della tecnica, arte compresa, che spinge sempre ed esasperatamente verso il futuro, come bene si estrinseca nell’opera Lei.
Lei: battito di ali? Lei: chiome selvagge? Lei: immagine-icona? Lei: linearismo grafico del Sumi-e.
Il percorso identificativo della realtà visiva di questa opera sembra essere volutamente incostante, di modo che, unico modo per salvarsi dal gioco crudele dell’interpretazione, è “perdersi” nelle volute arcane del bronzo traslucido, dove, come scrive dell’opera lo stesso artista, “anche la superficie più fredda si riscalda di un energia invisibile che la rende viva”.
Il riferimento torna di nuovo all’abile uso delle tecniche artistiche, verificate da Di Cola a partire da quella eterodossa della scultura a quella maggiormente contemporanea della fotografia – (pitto)fotografia – evirata appunto dal tratto pittorico per mezzo del quale, come lo stesso artista scrive – e anche la scrittura sembra divenire confacente all’istigazione creativo-intellettuale di Di Cola – si ritrova e riemerge la memoria, la “storia di ogni uomo, nei racconti di ogni vita, con la sua presenza, essenza a due colori ma con le sfumature di un infinito a noi concesso”.

Indietro